La scorsa settimana ho invocato il potere energizzante del color arancio e ha funzionato: non ho scordato le mie preoccupazioni, ma col passare delle ore ho ritrovato la mia solita energia per affrontarle.
Io sono una che non può fare a meno di sorridere, è un’inclinazione naturale che voglio tenere allenata perché so che la vita è dura e cerca sempre di punire le persone che hanno il sorriso sulle labbra. Anche perché, parliamoci chiaro: sono quasi sempre le persone che non vogliono saperne di sforzarsi di sorridere quelle a cui il tuo sorriso va di traverso.
Quando ti guardano male non è quasi mai perché sei troppo grassa/malvestita/maltruccata, ma perché scatta un altro tipo di velenoso confronto:
Sorriso = felicità = mi dai fastidio perché tu sei senza preoccupazioni né problemi e quindi più fortunata di me.
Io credo che sia sfiancante vivere così, senza provare mai ad alzare lo sguardo da terra, ma riconosco che sia questione d’abitudine. Ma se la giustificazione è “ho ricevuto troppe bastonate dalla vita” sappiate che è una sonora CAZZATA.
Il mito dei belli e dannati te lo lasci alle spalle con gli anni del liceo: le storie tristi non bastano, ce li abbiamo tutti i casini. Pronto? Understood? Benissimo.
E guardate che io ne ho tanti di momenti di sconforto, di tristezza, di malinconia, di caos mentale totale: possono venire da fuori o da dentro e a seconda del periodo sono frequenti. Quando qualcosa non va mi si legge in faccia, ma provo a fare qualcosa per migliorare la situazione. Non per non pensarci più, ma per lasciare che la vita trovi il modo di intrufolarsi tra le pieghe dei casini e portare qualcosa di buono. Oppure faccio come quegli animali che fanno finta di essere morti per essere lasciati in pace dai predatori, e nel frattempo sto lì a leccarmi le ferite in un angolo.
Vedere gente? Andare a camminare? Sfondarsi di canzoni tristi? Sfondarsi di cioccolato? Scrivere? Piangere? Fare tutto questo tutto insieme? È possibile anche questo, l’ho fatto qualche volta, basta la compagnia giusta!
Lo capisco caso per caso, quello che è meglio fare.
Ci sono voluti un po’ di anni per metterla a punto, ma è diventata una tecnica abbastanza affidabile. Adesso non ho quasi più paura di fare la fine di Virginia Woolf, anche se quando arrivo a spiegare la sua vita in classe si capisce che a lei tengo più che a Dickens o a Joyce.
Quando arriva una botta di tristezza me la strigo in tempi rapidi o me la tengo per un po’, e comunque in ogni caso cerco di capire se c’è qualche segnale da decifrare più a fondo, perché tanto è chiaro che nella psiche tutto quello che nascondi sotto il tappeto poi te lo ritrovi tutto sparpagliato nella stanza, vero?
Quando ero al liceo una delle prime frasi che scrivevo sulla Smemo nuova era “Meglio il dolore che l’apatia, meglio depressi che scemi“. Al quinto anno aggiunsi: “Meglio incazzati che depressi“. E amen.
Ora il mio motto è “Se non ti muovi, la scelta l’hai già fatta“.
E però l’ultima settimana è stata all’insegna della rabbia. Me la sono tenuta dentro, ha ribollito per un po’, poi mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: “Non te la meriti”. E ho buttato fuori tutto: scrivendo, piangendo, urlando, parlando a bassa voce, muovendomi.
Qualcosa è migliorato, qualcosa no, perché per quanto ci sforziamo non certe cose non possono migliorare un granché. Ma per stare bene le cose vanno guardate in faccia: le persone che sorridono spesso non sono sempre felici, ma CI PROVANO. E quando esprimono un malessere, no, non sono sul punto di suicidarsi. Stanno male e lo dicono.
La nostra società affronta senza battere ciglio tette e culi, ma ha qualche problema a gestire la tristezza:
se sei triste sei a rischio depressione, oh mio dio ma è gravissimo, devo farti ridere a tutti i costi, farti sentire un’ingrata perché hai tante cose belle di cui non ti accorgi, magari mettendoti davanti agli occhi le disgrazie di tutti gli altri abitanti sfortunati del globo.
Dai, calmiamoci.
Respiriamo, pensiamo, sorridiamo.
Un piede dietro l’altro, un giorno alla volta: i chili da perdere, i problemi da risolvere – fa tutto capo a noi stessi.
Ce la possiamo fare. Davvero!
Ciao,
sono d’accordo con te. Aggiungerei anche che ci sono persone che si permettono di giudicare te, le tue scelte, la tua vita senza conoscerti, basandosi solo sul sentito dire o addirittura su cosa scrivi su un blog o un social network. Ma io sul blog non mi metto mica a piangermi addosso pensando alle cose brutte che mi capitano (e me ne capitano… come a tutti!), ma cerco di affrontarle come nella realtà, raccontandole con un sorriso a volte forzato e sarcastico ma con ottimismo!! E da quando faccio così mi sono resa conto che le cose vanno meglio! Ma si sa, per alcuni l’autocommiserazione compensa il non sentirsi realizzati…
La maggior parte delle volte non credo neanche sia per cattiveria, sai? Credo sia un’abitudine che si prende, e dato che non si prova a scardinarla, rimane lì dov’è, chiudendo gli orizzonti e dipingendo sulle facce musi lunghi quasi indelebili!
Hai ragione, per molti è un meccanismo di difesa che diventa un circolo vizioso: meno ti senti realizzata e più ti piangi addosso, ma il piangerti addosso non ti consente di impegnarti in attività che possono farti sentire realizzata… Poi ci sono quelli che invece provano proprio soddisfazione nell’autocommiserazione (masochisti??) ed una piccola minoranza di persone che non ha veri problemi, se ne rende conto e si piange addosso solo per essere compatita…
Non mi ricordo chi ha detto ” Il mio sorriso è il mio miglior accessorio”. Io cerco di sorridere sempre, anche quando capita la giornata no, quella in cui vorresti spaccare tutto, ma sorridere e sorridersi aiuta a ridimensionare le paturnie!
Eh già! “Keep calm and smile” è un buon motto, non trovi?
Assolutamente sì. E poi quando uno sorride è comunque più bello!