Che io abbia un’antica passione per il festival di Sanremo non è mai stato un mistero. Certo, l’ho osteggiato come tutti gli adolescenti che si rispettino, specie nel periodo in cui a casa c’era una tv sola, era in sala da pranzo e il telecomando spettava a tutti tranne che a me. Eppure anche in quel periodo, pur con il muso lungo, pur con il sopracciglio alzato e il misuratore di vergogna per il prossimo in continua allerta, la mia scelta non era chiudermi in camera con un libro (come del resto facevo spesso), ma sedermi sul divano con mamma e nonna (nonno, finché c’è stato, rimaneva a vedere la tv dal suo posto a tavola, l’uomo dal coccige di ferro!).
Il giorno dopo andavo a scuola con le occhiaie blu, ma canticchiavo già qualcosina tra me e me. In classe, altre occhiaie blu e altre note accennate: si finiva a parlare di Sanremo perché tutti, volenti o nolenti, l’avevamo visto.
E quando gareggiava il gruppo giovane che piaceva a noi e non alle nostre famiglie – tipo i Negrita – era tutto un dividersi tra “Li massacreranno, questo pubblico di vecchi non li capirà” e “D’ora in poi non li ascolto più, stanno diventando troppo commerciali”.
Il salto di percezione me l’ha fatto fare un’amica più grande, tra fine anni Novanta e primi anni Duemila, credo: lei era già laureata in lettere, se non ricordo male allora aveva il tesserino di pubblicista e lavorava per una testata locale in attesa di entrare nell’albo dei giornalisti per occuparsi di cultura. Le sarebbe piaciuto fare l’inviata da Sanremo. Sì, hai letto bene: INVIATA, non invitata (era molto prima che la parola influencer facesse storcere il naso ai più):
“È lo spettacolo televisivo più longevo d’Italia, è da lì che passa tutto, nel bene e nel male: è una lente d’ingrandimento sul nostro Paese, è la storia del costume e della cultura popolare”.
Al giorno d’oggi la situazione ha virato verso un pluralismo molto più spiccato: si sono moltiplicate le occasioni di capire il mondo culturale italiano durante tutto l’anno (nel bene e nel male!) e oltretutto, in questi 365 giorni di pandemia, le domande che ci facciamo sono ancora di più, e tutte lecite: perché Sanremo sì e i cinema no? perché spendere tutti quei soldi per uno spettacolo di cinque giorni quando in tutta Italia ci sono un sacco di lavoratori dello spettacolo in difficoltà?
Credo che la risposta più sintetica e pertinente, per quanto amara da buttare giù, sia perché la Rai decide come vuole di spendere i suoi soldi, e anche se è la tv di Stato non è tenuta a interpellarci tutti prima di agire. D’altro canto, la macchina della kermesse, per mettersi in moto, richiede un bel po’ di maestranze: cancellare il festival avrebbe impedito anche a queste persone di avere qualche giorno di lavoro retribuito, senza minimamente aiutare tutte le altre a migliorare la loro situazione!
Naturalmente, ci si aspetta che la questione dei lavoratori dello spettacolo venga affrontata con competenza in questi giorni in cui buona parte degli Italiani sarà sintonizzata, perché in molti, anche tra coloro che sono sempre andati al cinema, a teatro e ad ascoltare i concerti, non hanno un’esatta percezione di quante persone in questo campo siano rimaste senza lavoro dal primo DPCM a oggi, ed è il momento di aprire gli occhi anche su questo.
E niente, anche stasera guarderò Sanremo, sapendo che non sarà un’edizione come tutte le altre pur essendo sempre il solito Sanremo. Commenterò gli abiti, le canzoni, bofonchierò che sto invecchiando troppo in fretta perché non conosco più quasi nessun cantante, mi appisolerò quando meno me lo aspetterò, cercherò di prevedere quali saranno le canzoni che canterò in auto da qui all’estate perché l’indomani saranno già in heavy rotation su Radio DeeJay (l’anno scorso quasi perdo la voce per Diodato, amore mio), mi infiammerò davanti al sessismo e all’ipocrisia, ma prometto solennemente di lasciare il telefonino lontano dal divano e di non riempire le mie Instagram stories di commenti provocatori su talenti, abilità, eleganza, livelli di invecchiamento e ingrassamento di tutte le persone che appariranno in video, sparando a zero in cerca della frase più dissacrante, quella che possa portare un filo di engagement in più.
Da molti anni sogno di vestirmi bene per vedere Sanremo, e non me lo impedirebbe nessuno se non la mia pigrizia (infatti credo che neanche questo sarà l’anno giusto per farlo); per molti anni ho seguito Sanremo da Twitter seguendo gli hashtag più caldi per leggere i commenti altrui e inserirmi nel flusso della conversazione (schivando e schifando chi li usava giusto per dire che loro non guardavano quella porcheria di Sanremo… dai gente, fatevi una vita o almeno fatevi un hashtag vostro!). È stato bello, piacevole, divertente, faceva sentire in compagnia… ma sento che adesso non voglio più stare in compagnia di certe menti, menti che gocciolano bodyshaming, maschilismo, razzismo e bullismo, vorrei stare in compagnia di persone che sanno che satira, sarcasmo e ironia sono tutt’altro (e quanto coraggio ci vuole per salire su un palcoscenico, anche quando ti pagano) e non dare un pubblico a dei creator a caccia disperata di content che come picco massimo di originalità hanno la battuta “FERRAGNI, CHI?” e poi pagherebbero per arrivare a 10k su IG, e NON per lo swipe up, che comunque viste le teste non saprebbero come usare in nessun caso.
Allora io esco Maria, esco dalla gruppo, abbandono la conversazione: mi godrò lo spettacolo dal divano, renderò noto il toto-vincitore che ogni anno mamma mi consegna dicendomi “Vediamo quanti ne becco”. Manco al Fantasanremo posso giocare, ché per la squadra che vorrei sforo il budget di 30 Pippi Baudi, mannaggia a me e alle mie mani bucate. Guardo Sanremo ma non ascolto il rumore che fa chi ne rimane fuori e cerca di leccare le briciole. Guardo Sanremo e domattina mi luciderò gli occhi (circondati da occhiaie bluastre) con le stories armocromatiche di Rossella Migliaccio: credo mi possa bastare questo per stare bene 😉